Non piove spesso, l’aria è pesante e malsana. Ma a volte
capita che una colata di sporcizia liquida precipiti giù all’improvviso
trasformando il suolo in una palude putrida, illuminata da neon fluorescenti.
L’asfalto trasuda
vapore e l’escursione termica tra l’interno del locale e l’esterno fa battere i
denti, non sai più cosa sia bello e cosa ripugnante. Le banconote passano di
mano in mano, la busta che le contiene è fradicia, il denaro sembra rilasciare
colore, come le ali di una farfalla braccata.
E’ tutto ciò che puoi vedere, il vapore mefitico impedisce
una visuale migliore, le voci sono semplici sussurri, a tratti concitati, a
tratti morbidi e quasi suadenti. Non avresti dovuto bere, no. Ora non saprai
mai se quello che hai visto è frutto della tua fantasia o è accaduto davvero.
Meglio rimanere fermi, in un precario equilibrio agevolato dalla presenza del
muro scabro che ti regge la schiena e ostacola la caduta.
Qualcuno apre la porta sul retro, una zaffata di aria calda
e di luce sintetica abbraccia i due uomini in piedi, in mezzo al vicolo. Due
paia d’occhi che si fronteggiano, ancora non si capisce chi avrà la meglio fra
i due, è troppo presto. Forse è troppo tardi.
L’odore di cibo rancido e vomito stordisce, dritto come un
jap allo stomaco. Uno schieramento marziale di bidoni è l’unica protezione fra
te e quel combattimento muto al centro della strada. E poi voci, accento
orientale, americano strascicato del sud, imprecazioni in giapponese.
Una mano invisibile ti spinge in avanti, provi un
irrefrenabile voglia di andare giù, lasciarti cadere, attratta dalla forza di
gravità che ti trascina verso il centro della terra. Abbracciare l’ammasso di
scarti di cucina, un opzione migliore degli scarti di esseri umani poco più in
là.
Il tonfo della caduta produce un effetto domino rumoroso e
scomposto, il suono metallico copre la musica sincopata che fa vibrare le mura
del locale.
Giù.